“Ma guarda te… Un blog pseudo intellettuale, che due anni fa scriveva dell’arte del successo, e che nell’ultimo articolo si è fatto la marchetta da solo su LinkedIn… Io ci vedo solo uno che parla, parla, ma parla solo per se stesso. Vai, adesso puoi parlare.”
Quando ero muto
Dei miei primi due anni di università, ricordo con piacere lo sconforto di aver fatto a malapena cinque esami sui quindici che avrei dovuto fare, e che mi mettevano nella prospettiva di finire la triennale con praticamente sei anni di fuori corso.
Ma, fortunatamente, il miracolo avvenne. Riuscii a trovare la formula magica per riuscire a crescere e sopravvivere. Ne coniai anche una formula, i 3 Che del culo:
- Che ho avuto;
- Che mi sono fatto;
- Che non ho mai venduto.
Battute a parte, e un rancore ormai passato (ma mai dimenticato), i primi due anni furono un inferno per me. Non riuscivo a integrarmi: certo, avevo un gruppetto di amici, ma per pura sopravvivenza, non per un vero legame di stima e amicizia.
Tra le tante cose, riuscire a parlare era la cosa che mi riusciva di meno in assoluto. Vedevo tutta questa gente con anni di esperienza, con una dialettica eccelsa, e con tanta conoscenza che sgorgava da tutti i bordi.
Come potevo fare lo stesso, essere come loro, senza aver mai avuto modo di vivere il mondo? Riuscivo solo a parlare di rap, di Fabri Fibra, di videogiochi, di quanto fosse figo Socrate (perché tutti trovano figo uno che non ha scritto nulla, quindi non devi studiare i suoi libri), e di Che Guevara, unica biografia, e libro in generale, che avevo letto fino a quel momento (anche lui, super amato da tutti, quindi perfetto per aprire un dibattito pseudo intellettuale).
Insomma, per me valeva la regola dell’essere democristiano: parla con tutti, di argomenti che accontentano tutti, e vai avanti verso la sopravvivenza.
“Bravo bravo, noi condividiamo. Ma lei era partito nominando Charlie Chaplin e l’attrice che c’è nel film di Superman, e noi di questo vogliamo leggere… Per carità, tutte cose bellissime quelle dell’università, non sia mai che ti offendi, però puoi andare dritto al punto, per una volta?”
Adesso ti racconto una bella storia
Fuori dal bar dell’università, mi capita di origliare una conversazione dove un tipo stava spiegando ad una ragazza, visibilmente distratta e che si limitava a dire di sì con la testa, un aneddoto su Charlie Chaplin.
Parlava di come lui avesse voluto girare nel 1940 il film Il grande dittatore come film di denuncia contro i crimini che il nazismo stava svolgendo, e per rendere di dominio pubblico tutte quelle ingiustizie nei confronti delle minoranze.
Ero rimasto davvero affascinato da quella storia: Charlie Chaplin, acclamato attore di film muti, avrebbe iniziato a parlare per denunciare il male. Si sarebbe fatto il baffetto, per deridere pubblicamente Hitler. Voleva far sapere a tutti cosa stava accadendo, in un modo coraggioso e al passo coi tempi.
Ho amato quel film, quella trama, quel personaggio. Ricordo che tornai a casa e non facevo altro che cercare aneddoti e storie belle, come quella che mi era capitato di origliare quel giorno al bar dell’università, da parte di quel ragazzo.
E poi, il dramma: quella storia, raccontata da quel ragazzo, era tutta una balla…
“Ma come?! Prima mi racconti la storia, mi ci fai credere e appassionare, inizi un discorso di senso compiuto, e poi mi dici che erano tutte bugie? Ma vaffanculo dai… Perché raccontarla, allora?”
Quando a parlare era Charlie Chaplin
Con l’arte del parlare, non si intende che si dica una verità. Si parla per comunicare un messaggio, per fare in modo che la persona sia a conoscenza di certi fatti, e da lì può trarne delle conclusioni.
Su questo ce ne sarebbero di cose da dire, ma mi limito all’evento del bar universitario. Lui racconta una bella storia a lei. Sul perché e per quale fine si possono solo fare speculazioni, però sta di fatto che ci sono una serie di bugie che vale la pena analizzare:
- Charlie Chaplin aveva l’iconico baffetto già dal 1914, nel cortometraggio Mabel’s Strange Predicament, per una questione di mimica facciale, per mostrare meglio le espressioni del viso;
- Il film lo fece principalmente per prendere in giro Hitler, sfruttando la grande somiglianza che aveva con lui. Non era una diretta denuncia ai crimini dei nazisti. Fu proprio lui a dire che, se avesse saputo di quegli atroci omicidi, non avrebbe mai fatto quel film;
- In ultimo, il fatto che fosse il primo film parlato era un segno dei tempi. Pensa che solo un anno prima era uscito Via col vento, che non solo era parlato, ma addirittura a colori: una vera evoluzione per il cinema americano.
“Sei una persona orribile, che non apprezza una bella storia, e che deve sempre fare il puntiglioso… Ora capisco perché avevi pochi amici all’università.”
Ciò che voglio dire è che, se mi fossi fermato a quel discorso di quel ragazzo al bar, avrei pensato che lui era un grande a conoscere tutte queste informazioni, e che Charlie Chaplin è un genio.
Invece, controllando, con ragionamento proprio e con critica, sono arrivato a una conclusione leggermente diversa: Charlie Chaplin è un gigante assoluto del cinema e delle arti, ammirato da Albert Einstein e probabilmente non ha mai perso a un concorso di sosia di sé stesso.
Riguardo il tipo invece? La mia conclusione è che lui volesse solo raccontare una bella storia per fare bella figura. Il risultato finale è tutt’altro, anche perché:
- Voleva sembrare intelligente? Forse sì. Purtroppo il discorso era troppo semplicistico e pieno di inesattezze. Un conto è essere intelligenti, un conto è sembrarlo.
- Voleva mostrarsi interessante? Probabile. Sfortunatamente, la convinzione fotte la gente: tanti sembrano interessanti inizialmente, ma ti deludono in poco tempo.
- Voleva fare colpo? Oddio… Se vuoi far colpo su una tipa, di certo non le parli di Charlie Chaplin, o di Martin Lutero, o di… Insomma, ci siamo capiti.
Se racconti una bella storia, fa’ in modo di sembrare il più autorevole possibile, così da non suscitare dubbi. In questo modo, rimarrai l’alternativa più allettante per intrattenere una conversazione. Qui una foto con i massimi rappresentanti di questo movimento.
Kangaroo!
“Ehi, ormai ci conosciamo da due anni, e a questo punto dell’articolo ti chiedo di arrivare alla conclusione. Quindi dai, tu chiudi questo pensiero, e io posso tornare alla mia vita normale, che qui la circolazione del sangue nelle gambe è bella che interrotta da un pezzo. Su, su…“
Qualche anno dopo quell’episodio del bar, mi è capitato di vedere un film, Arrival. Consiglio a chiunque la visione, e la storia, in poche parole, è incentrata sul linguaggio.
Perché te ne parlo? Perché c’è una scena all’interno del film in cui Amy Adams racconta una storia, molto affascinante, riguardo al nome di un animale, il canguro.
L’attrice spiega di come, mentre i coloni inglesi indicano l’animale e chiedono agli aborigeni come si chiamasse, loro avrebbero risposto “Canguro“. Solo che, tempo dopo, si è scoperto che “Canguro” in realtà stava per “non ti capisco“, riferendosi a quello che l’inglese stesse chiedendo.
Quindi, anche qui una bella storia, ma anche una bella bugia. Amy nel film spiega di come fosse necessario mentire in quel caso, per far passare un messaggio.
Anche il nobile Kant mentirebbe per salvare degli ebrei dai nazisti. Così come oggi degli arabo-ebrei mentono ai sionisti per salvare dei palestinesi.
Così si conclude questa storia. Tutte le storie che ho scritto fino ad ora, hanno uno scopo ben preciso. Non è quello di raccontare la verità, ma è quello di far in modo che qualcosa si accenda in te. Spero che possa aver scatenato una scintilla, una fiamma, una voglia.
Spero che tu possa conoscere meglio Charlie Chaplin, che tu possa giocare al meglio con la dialettica per una buona causa, e soprattutto che, d’ora in avanti, non proverai più a fare il finto intellettuale per poter rimorchiare una persona.
“E come non ricordare le parole del babbo a riguardo: La botte piena non fa rumore, mentre quella vuota suona.”